La sentenza in commento ripropone l’annosa questione relativa alla determinazione della responsabilita’ fiscale di un professionista nello svolgimento della sua attivita’. Tuttavia e’ da rilevare che la stessa giurispruenza della Cassazione non riconosce ai commercialisti lo status di professionisti a presidio di un pubblico interesse, affermando invece che la consulenza e l’assistenza tributaria e’ liberamente esercitabile da qualsiasi soggetto.
Nella sentenza viene sancito che per evitare ogni tipo di responsabilita’, il commercialista deve sempre osservare la diligenza richiesta dalle specifiche disposizioni normative e dalla deontologia professionale. Ne deriva l’obbligo di verificare la correttezza delle informazioni rese dal cliente nonché di escludere dalla dichiarazione dei redditi eventuali oneri privi della relativa documentazione giustificativa.
La vicendaUn commercialista impugna in Cassazione la sentenza della Corte di appello di Trieste (confermativa della decisione di primo grado del Tribunale di Udine) che, per un verso, ha accolto, seppur in parte, la domanda di risarcimento danni da responsabilita’ professionale, avanzata da un contribuente contro il professionista ricorrente e, dall’altro, ha rigettato la domanda di manleva proposta da quest’ultimo contro la compagnia di assicurazioni.
Secondo i rilievi della Corte territoriale, e per quel che qui interessa, il professionista, in linea generale, ha l’obbligo di espletare l’incarico affidatogli con diligenza e secondo le regole della professione, cosa che, nel caso di specie, non e’ avvenuta.
Infatti, a seguito del controllo, da parte del competente ufficio finanziario, della dichiarazione dei redditi (anno 1981) presentata dal cliente del professionista, l’ufficio procedeva alla rettifica della stessa per avere il contribuente esposto costi non documentati, costi non inerenti all’anno al quale si riferiva la dichiarazione dei redditi e, infine, per avere detratto l’Ilor nell’ammontare massimo dell’anno, benché il contribuente avesse operato in qualita’ di imprenditore individuale solo per alcuni mesi dell’anno in questione.
Nella sua linea difensiva, il commercialista lascia intendere che ci fosse una sorta di accordo con il cliente per l’indicazione in dichiarazione di costi non provati – oggetto poi della verifica dell’ufficio finanziario – sebbene, continua la Corte di appello, tale accordo non sia stato provato (accordo che, qualora dimostrato, sarebbe stato comunque contrario alla legge e alle regole professionali).
Ciò premesso, i giudici di appello ritengono evidente, nella fattispecie in esame, la colpa del commercialista, il quale e’ comunque tenuto, nel rispetto del codice di deontologia professionale ad un comportamento corretto – ed e’, pertanto, responsabile per il suo operato quando lo stesso si discosti dai canoni di correttezza e lealta’ professionale – e bene ha fatto il giudice di primo grado a condannarlo al pagamento della meta’ delle sanzioni applicate dall’Erario al contribuente (in considerazione della colpa concorrente di quest’ultimo nella commissione dell’irregolarita’).
Le motivazioni del professionista
Il commercialista propone ricorso per cassazione ed eccepisce l’erronea e insufficiente motivazione della sentenza di appello laddove afferma la propria responsabilita’ professionale sulla scorta del solo contenuto dell’accertamento compiuto dall’ufficio finanziario e dalle commissioni tributarie di merito (che, sia in primo sia in secondo grado, hanno confermato l’operato dell’ufficio).
In pratica, per il ricorrente, i giudici di appello hanno sbagliato laddove hanno dato per scontato che la pretesa avanzata dall’Amministrazione finanziaria nei confronti del cliente del professionista fosse legittima e che spettasse a quest’ultimo confutare le risultanze delle sentenze pronunciate dalle Commissioni tributarie di merito.
Infatti, continua il ricorrente, e’ principio noto in giurisprudenza quello secondo cui spetta all’Amministrazione finanziaria provare in giudizio il fondamento delle proprie pretese – non sussistendo in materia tributaria alcuna presunzione di legittimita’ dell’avviso di accertamento – e, pertanto, nella specie, non avendo il commercialista preso parte al giudizio dinanzi alle Commissioni tributarie, doveva considerarsi terzo estraneo al giudizio e nessuna efficacia (diretta e/o riflessa) potevano svolgere, nei suoi confronti, le due decisioni rese dai giudici tributari.
Di contro, l’onere di provare la responsabilita’ del professionista nel caso de quo era a carico del contribuente che, invece, non ha fornito tale prova.
La decisione della CassazioneI giudici delle Corte suprema ritengono infondate tali censure e confermano in toto l’impianto interpretativo dei giudici di appello.
Infatti, e’ corretto l’assunto della Corte di appello secondo cui costituisce “…preciso obbligo di diligenza del professionista non appostare costi privi di documentazione o non inerenti all’anno della dichiarazione…senza avere riscontrato la presenza della relativa documentazione“.
Da ciò deriva per il professionista il conseguente obbligo “…di escludere i costi dalla dichiarazione dei redditi, qualora il cliente non avesse provveduto a fornire la relativa documentazione“, senza che assuma rilevanza, al fine di escludere una responsabilita’ del commercialista, la circostanza che il cliente tenesse in modo disordinato la sua contabilita’.
Inoltre, sempre secondo la Cassazione, non rileva a escludere la responsabilita’ del professionista, la circostanza che il contribuente non aveva ritenuto – contro il parere del commercialista – di impugnare ulteriormente la decisione dei giudici tributari di secondo grado, in quanto il professionista non era stato in grado di svolgere alcuna argomentazione per dedurre la erroneita’ della decisione di appello, con la conseguenza che “…la semplice osservazione che avrebbe potuto essere proposta impugnazione avverso la decisione della Commissione Tributaria di secondo grado non poteva valere ad escludere la correttezza delle decisione adottata“.
Del pari, va rigettata l’obiezione, sollevata sempre dal commercialista, secondo cui il cliente/contribuente avrebbe potuto ridurre l’entita’ delle sanzioni applicate dall’ufficio – attraverso lo strumento del condono – in quanto “…i giudici di appello hanno opportunamente rilevato che questo argomento era stato gia’ esaminato dal primo giudice che aveva tenuto conto della circostanza per ridurre alla meta’ l’ammontare della somma riconosciuta a titolo di risarcimento del danno“.
Fonte
La vicendaUn commercialista impugna in Cassazione la sentenza della Corte di appello di Trieste (confermativa della decisione di primo grado del Tribunale di Udine) che, per un verso, ha accolto, seppur in parte, la domanda di risarcimento danni da responsabilita’ professionale, avanzata da un contribuente contro il professionista ricorrente e, dall’altro, ha rigettato la domanda di manleva proposta da quest’ultimo contro la compagnia di assicurazioni.
Secondo i rilievi della Corte territoriale, e per quel che qui interessa, il professionista, in linea generale, ha l’obbligo di espletare l’incarico affidatogli con diligenza e secondo le regole della professione, cosa che, nel caso di specie, non e’ avvenuta.
Infatti, a seguito del controllo, da parte del competente ufficio finanziario, della dichiarazione dei redditi (anno 1981) presentata dal cliente del professionista, l’ufficio procedeva alla rettifica della stessa per avere il contribuente esposto costi non documentati, costi non inerenti all’anno al quale si riferiva la dichiarazione dei redditi e, infine, per avere detratto l’Ilor nell’ammontare massimo dell’anno, benché il contribuente avesse operato in qualita’ di imprenditore individuale solo per alcuni mesi dell’anno in questione.
Nella sua linea difensiva, il commercialista lascia intendere che ci fosse una sorta di accordo con il cliente per l’indicazione in dichiarazione di costi non provati – oggetto poi della verifica dell’ufficio finanziario – sebbene, continua la Corte di appello, tale accordo non sia stato provato (accordo che, qualora dimostrato, sarebbe stato comunque contrario alla legge e alle regole professionali).
Ciò premesso, i giudici di appello ritengono evidente, nella fattispecie in esame, la colpa del commercialista, il quale e’ comunque tenuto, nel rispetto del codice di deontologia professionale ad un comportamento corretto – ed e’, pertanto, responsabile per il suo operato quando lo stesso si discosti dai canoni di correttezza e lealta’ professionale – e bene ha fatto il giudice di primo grado a condannarlo al pagamento della meta’ delle sanzioni applicate dall’Erario al contribuente (in considerazione della colpa concorrente di quest’ultimo nella commissione dell’irregolarita’).
Le motivazioni del professionista
Il commercialista propone ricorso per cassazione ed eccepisce l’erronea e insufficiente motivazione della sentenza di appello laddove afferma la propria responsabilita’ professionale sulla scorta del solo contenuto dell’accertamento compiuto dall’ufficio finanziario e dalle commissioni tributarie di merito (che, sia in primo sia in secondo grado, hanno confermato l’operato dell’ufficio).
In pratica, per il ricorrente, i giudici di appello hanno sbagliato laddove hanno dato per scontato che la pretesa avanzata dall’Amministrazione finanziaria nei confronti del cliente del professionista fosse legittima e che spettasse a quest’ultimo confutare le risultanze delle sentenze pronunciate dalle Commissioni tributarie di merito.
Infatti, continua il ricorrente, e’ principio noto in giurisprudenza quello secondo cui spetta all’Amministrazione finanziaria provare in giudizio il fondamento delle proprie pretese – non sussistendo in materia tributaria alcuna presunzione di legittimita’ dell’avviso di accertamento – e, pertanto, nella specie, non avendo il commercialista preso parte al giudizio dinanzi alle Commissioni tributarie, doveva considerarsi terzo estraneo al giudizio e nessuna efficacia (diretta e/o riflessa) potevano svolgere, nei suoi confronti, le due decisioni rese dai giudici tributari.
Di contro, l’onere di provare la responsabilita’ del professionista nel caso de quo era a carico del contribuente che, invece, non ha fornito tale prova.
La decisione della CassazioneI giudici delle Corte suprema ritengono infondate tali censure e confermano in toto l’impianto interpretativo dei giudici di appello.
Infatti, e’ corretto l’assunto della Corte di appello secondo cui costituisce “…preciso obbligo di diligenza del professionista non appostare costi privi di documentazione o non inerenti all’anno della dichiarazione…senza avere riscontrato la presenza della relativa documentazione“.
Da ciò deriva per il professionista il conseguente obbligo “…di escludere i costi dalla dichiarazione dei redditi, qualora il cliente non avesse provveduto a fornire la relativa documentazione“, senza che assuma rilevanza, al fine di escludere una responsabilita’ del commercialista, la circostanza che il cliente tenesse in modo disordinato la sua contabilita’.
Inoltre, sempre secondo la Cassazione, non rileva a escludere la responsabilita’ del professionista, la circostanza che il contribuente non aveva ritenuto – contro il parere del commercialista – di impugnare ulteriormente la decisione dei giudici tributari di secondo grado, in quanto il professionista non era stato in grado di svolgere alcuna argomentazione per dedurre la erroneita’ della decisione di appello, con la conseguenza che “…la semplice osservazione che avrebbe potuto essere proposta impugnazione avverso la decisione della Commissione Tributaria di secondo grado non poteva valere ad escludere la correttezza delle decisione adottata“.
Del pari, va rigettata l’obiezione, sollevata sempre dal commercialista, secondo cui il cliente/contribuente avrebbe potuto ridurre l’entita’ delle sanzioni applicate dall’ufficio – attraverso lo strumento del condono – in quanto “…i giudici di appello hanno opportunamente rilevato che questo argomento era stato gia’ esaminato dal primo giudice che aveva tenuto conto della circostanza per ridurre alla meta’ l’ammontare della somma riconosciuta a titolo di risarcimento del danno“.
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